In ogni romanzo giallo che si rispetti c’è una comprensione per la massa, una cura per i luoghi e i personaggi, per le vittime e i carnefici, che alla fine, porta il lettore ad avere con sé, davanti agli occhi, un bel pezzo di umanità con debolezze e forze, oltre a fornire una chiara visione di un posto. Quello di Franco Festa “Il respiro del Male”, Mephite (pag.280, euro 12,00), al suo quinto episodio, riesce in questo intento, con l’aggiunta di avere un protagonista, l’ispettore Mario Melillo, che ormai è entrato nella storia della città di Avellino. «Era proprio una strana persona, il commissario Melillo, si era detto Vietri tante volte. Doveva essere stato bello, da giovane: non era troppo alto e gli anni avevano accentuato la sua tendenza alla pinguedine; portava orribili occhiali per la vista, con una montatura troppo grande e troppo scura, che non cancellavano però la forza di uno sguardo che osservava le vicende della vita con fermezza e malinconia. La sensualità delle labbra carnose, raramente ferme su un sorriso, ma in quel caso delicate come quelle di un bambino, ‘irrequietezza dei capelli ricci, ora più radi, e soprattutto il modo in cui camminava colpivano sempre l’ispettore. Il commissario oscillava, alternando passi corti, quasi trasognati, a più lunghi, quasi agitati, come se le circostanze che lo coinvolgevano, le persone che incrociava, influissero sul suo andare, fossero un regolatore misterioso del suo muoversi in mezzo agli altri». Il merito di Franco Festa è doppio, perché se è facile avere una storia con delitto non è facile averla in una città impropria come la sua, e con un personaggio così forte. Viene in mente il ragionamento che Sandro Veronesi fa ne “La forza del passato” a proposito delle friggitorie, sulla loro grandezza, perché è semplice fare cose buone con l’alta cucina, difficile è riuscirci con le fritture. Ecco, Festa ci riesce non avendo Marsiglia o Barcellona, ma Avellino. Una città di crolli e pioggia, lividezze e voracità. Senza sbagliare un colpo, mette insieme un gorgo perfetto di acqua sporca, e la fa girare. Su tutti a governarne il corso, l’ispettore Melillo, che ha i modi sfatti del tenente Colombo di Peter Falk, la sua aria sorniona, e in questa storia anche la stanchezza di chi conosce la vita e i suoi colpi, come il Paul Newman de “Il verdetto”, e se non ha vizi come l’alcol o le droghe, ha una spigolosità, una ruvidezza che diventa forza:«Raramente ricambiava un saluto, ma quando accadeva lo faceva con trasporto, quasi con gioia. La sua solitudine era diventata leggenda nella città». Inutile dire che deve farsi forza e affrontare mascalzoni, furfanti, canaglie, farabutti, cinici, traditori, in un tempo – gli anni settanta – di confusione e idee estreme, tra salotti buoni, commercianti, commendatori e comparse come un bidello, Eugenio, che sembra uscito da una poesia di Borges, che appartiene a quella umanità che amando le piccole cose e la cura di queste, salvano il mondo tutti i giorni. E di una vittima, Claudia, che sembra manzoniana, aspetta il salvataggio della provvidenza, e appartiene a quelle donne delicate che si rassegnano alla sconfitta e si immolano in silenzio al sacrificio, che sopportano violenze e umiliazioni, perché credono a una redenzione, e non fanno in tempo a ricredersi, avendo dalla loro solo alcuni giorni di felicità, un numero ristretto di gioie. Negli anni la capacità di Franco Festa nel governare le storie è cresciuta e in questa ha raggiunto una padronanza non solo del plot ma soprattutto un equilibrio tra i personaggi, tanto da potersi permettere un protagonista, Melillo, quasi defilato, che se ne sta sulla soglia, e annuncia di continuo la sua uscita di scena, andando oltre il tormentone, con riflessioni sul suo modo di indagare che diventano autobiografia: «Qual era stato in fondo il suo metodo, per tanti anni, se non quello dell’ascolto paziente, del rispetto per le ragioni degli altri, un lavoro artigianale, lento, di ricerca di una possibile trama in ogni storia che affrontava? Ancora oggi, dopo tanto tempo, non avrebbe saputo descrivere in quale momento i fatti si ricomponevano, il disegno si svelava chiaro. Intuito, intelligenza, capacità investigativa, avevano detto quelli che ammiravano il suo agire. Casualità, fortuna, avevano sussurrato i suoi detrattori. Melillo non si curava né degli uni né degli altri, non cercava riconoscimenti, onori. Cercava la verità, come regola del suo lavoro e della sua vita, sapeva che occorreva fatica e attenzione per raggiungerla». Verità che va raggiunta, tra individui poco raffinati, carne fumante, indifferenza. E come i grandi maestri della vita, Melillo sa che si cresce per accumulo di errori non per infallibilità e che: «Gli investigatori fanno solo domande, non danno risposte».

Marco Ciriello, il Mattino

 

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