Per Franco Festa
da Lia Tino.
“Il respiro del male” di Franco Festa, Mephite edizioni.
L’ultimo romanzo di Franco Festa, per la ricchezza dei temi e delle situazioni,
mi è parso simile ad una matriosca.
C’è, innanzitutto, una nuova indagine del commissario Melillo reso un po’ più
lento e affaticato non solo dal trascorrere del tempo ma dalla consapevolezza
del continuo e inarrestabile degrado della “ sua” città, dal punto di vista
fisico ed antropologico.
La stanchezza, l’improvvisa fragilità, le tante disillusioni non impediscono a
Melillo di procedere, come sempre, alla ricerca della verità, pur nel rispetto
delle persone coinvolte.
C’è una delicata storia d’amore tra Claudia e Rino che coinvolge e commuove
proprio per il contrasto con la violenza di cui sono entrambi vittime. Contro di
loro agisce persino chi avrebbe dovuto avvertire il bisogno di amarli e
aiutarli: la madre di Claudia e il padre di Rino, loro stessi vittime di
ignoranza, pregiudizi, antiche viltà.
C’è uno spaccato della vita avellinese tra fine anni ’70 e inizio anni ’80 che
va dalla borghesia ai nuovi ricchi, come il costruttore Rocca e la moglie
Teresa, ai commercianti, spesso corrotti e corruttori, ai poveri che ancora
vivono nei tuguri di tufo lungo il Fenestrelle.
C’è, come sempre nei libri di Festa, una folta presenza di personaggi femminili:
Angela, Luisa, Elvira, Teresa, Graziella; tutte ruotano intorno a Claudia che
riesce, con la sua disarmante sincerità e il suo calore, a costruire una rete di
umana e femminile solidarietà che, se non la salva dal suo assassino, consente a
Melillo di comprenderla e di arrivare alla verità.
Infine, anche se appena accennata, si percepisce benissimo l’ansia, la paura,
l’incredulità vissuta in città durante il periodo del terrorismo: ragazzi
cresciuti fra noi, educati da noi, scelsero di assumere atteggiamenti
inquietanti di imboccare vie pericolose (tema quest’ultimo importante perché la
città non ha mai fatto i conti con gli eventi di quel periodo).
A pensarci bene, la mia percezione iniziale è forse troppo edulcorata: quest’ultima
avventura di Mario Melillo è una vera discesa agli inferi.
Dal vecchio e amato Liceo Colletta e dal quartiere Valle, Melillo attraversa,
incontro dopo incontro, tutta la città e tutti gli ambienti: è una discesa
sofferta. Ad un certo punto, proprio nell’ospedale cittadino, sopraffatto dalle
vertigini, finisce con l’essere ricoverato: il suo corpo avverte lo scorrere del
tempo o ciò che si va delineando e quanto comincia ad intuire lo soffocano?
Lentamente, il commissario riprende la sua indagine che si conclude nel punto
più basso e più antico della città, lungo il fiume Fenestrelle.
La struttura verticale del romanzo è ben chiara.
Più volte l’autore ci ha fatto comprendere che Melillo è vicino alla pensione.
E’ l’ultimo romanzo della serie?
Come lettrice e come avellinese posso solo dire che, se così fosse, mi mancherà
lo sguardo attento e disincantato di Melillo sulla città, la sua profonda
umanità, la sua cristallina onestà, il suo essere memoria storica di questa
“mia” città.
Lia Tino titolare della libreria L’angolo delle storie