RECENSIONE DI GENEROSO PICONE SU  "IL MATTINO" 15 NOVEMBRE 2010

C’è un po’ di Zaira, la città invisibile di Italo Calvino, nell’Avellino in cui Franco Festa ambienta le sue storie, o meglio: le storie del commissario Melillo, il personaggio da lui disegnato e assoluto protagonista al meglio del suo profilo nell’ultimo «La verità dell’ombra» (Mephite, pagg. 204, euro 13: domani alle 18 se ne discuterà all’auditorium del convitto «Colletta» di corso Vittorio Emanuele). La Zaira fatta di gradini, archi e tetti ma soprattutto di relazioni tra le misure del suo spazio e gli avvenimenti del suo passato: impastata di vita, di momenti, gesti, tratti, segni che rimandano a una storia. «Ma la città non dice il suo passato, lo contiene come le linee di una mano, scritto negli spigoli delle vie, nelle griglie delle finestre, negli scorrimano delle scale, nelle antenne dei parafulmini, nelle aste delle bandiere, ogni segmento rigato a sua volta di graffi, seghettature, intagli, svirgole». L’Avellino di Franco Festa - ne «La verità dell’ombra» come già in «Delitto al corso» del 2004, ne «La quinta notte» del 2006 e ne «L’ultimo sguardo» del 2008 - pare essere una città che dice il suo passato soltanto se si riesce a ricavarlo attraverso un’indagine poliziesca. La verità riposerebbe altrimenti nelle pieghe di un presente svagato, celata nella mediocrità piccolo-borghese e nel perbenismo ipocrita della provincia sonnolenta con la pancia piena. Nella cosiddetta normalità: ecco, se un centro è possibile individuare in questo romanzo di Festa, senza smontare la riuscita architettura di una narrazione che nel genere trova tutte le capacità per sfuggire alla rubricazione di giallo, questo è dato proprio dall’idea di normalità. Si legge a un certo punto: «La normalità è ristabilita, siamo tutti salvi. Solo che oggi, in questa storia e in questo tempo di furia che viviamo, è proprio la normalità ad essere messa in discussione». La stagione di cui si dice è quella del ’68 avellinese, giunto magari con un po’ di ritardo sulla tabella mondiale - o in anticipo, considerando il murale di Ettore De Conciliis nella Chiesa di San Francesco alla ferrovia: era il 1965 -, delle riunioni alla parrocchia di San Ciro con don Michele Grella, dei manifesti a sostegno di Pio Falcolini, degli scioperi dei lavoratori dell’azienda di trasporti, dei doposcuola per i bambini di rione Aversa, delle assemblee studentesche, di una tensione ideale che forse non si sarebbe più vista. Il momento anche degli scempi edilizi. Cioè della notte di San Bartolomeo, quando nell’imminenza del piano regolatore generale fu fatto massacro delle licenze per costruire in ogni dove e a spregio di ogni regola: «Pensa: il sindaco era seduto davanti al bar Lanzara e gli impiegati salivano e scendevano correndo dal palazzo del Comune con le licenze edilizie in mano. Lui firmava e consumava il suo caffé, firmava e si godeva il sole. Che cosa ignobile!», racconta Festa. Allora, Avellino mutò volto. Non badò a intervenire nelle nuove periferie di Valle né nel dimenticato e cadente centro antico - i poli all’interno dei quali si sviluppa la trama de «La verità dell’ombra» -, ma in nome di una modernizzazione selvaggia e speculatrice: non in nome dei principii di don Milani o dei maestri francofortesi, ma del sacco cementizio. Ne venne un nuovo ceto dirigente, gli occasionisti prima che nascesse l’occasionismo, la gente del geometra Luca Raucci, con le sue furberie, i suoi intrallazzi, i suoi traffici usurai. A tavola, in un pranzo domenicale come quelli di una volta, ci sarà il confronto duro con la nipote Chiara, una ragazza dei doposcuola ai bambini sottoproletari, vibrante di cambiamento e giustizia: è una delle scene simbolo de «La verità dell’ombra», una quadro d’azione alla Marco Bellocchio che non esplode nei pugni in tasca, una rivolta repressa che non sfocia nel sogno visionario degli infanti della rivoluzione di Bernardo Bertolucci. «Ora, per fortuna, nulla è più come prima. Neppure in questa città, in cui tutto sembra sempre uguale a se stesso, in cui i più aspettano che tutto passi, che tutto riprenda il vecchio ritmo. È cambiato, il ritmo, anche qui. Appunto, si è rotta la cosiddetta normalità»: spiega la giovane magistrata Rossi al commissario Melillo. Lei non è una estremista e il cambiamento a cui fa riferimento riguarda faccende più profonde, disordini interiori. Ragiona di persone assassinate, di omosessualità sofferte, di anime come quella di Luigi. Per lui ci sono pagine di grande emozione, una cura per la sua sofferenza a cui Festa presta pagine commosse. L’inchiesta che si sta conducendo ha alzato il coperchio, la città amata e straziata nella struggente nostalgia dei luoghi - Palazzo Congedo, il Fenestrelle - mostra di poter vivere ancora una speranza quando le vittime trovano il coraggio di denunciare. Il limite sembra superato, non si può sopportare tutto nell’attesa di un posto di lavoro, il compromesso del tornaconto è saltato: «Riaffiorava un coraggio collettivo, una voglia di presenza civile. Quanto sarebbe durata?». Come nella tautologia della rosa di Gertrude Stein, un romanzo è un romanzo è un romanzo è un romanzo. Non può dare risposte a simili interrogativi, semmai fermarsi a porre elementi di inquietudine. A porre ulteriori domande, insinuando il dubbio che troppo poco sia davvero cambiato.

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