Floriana Guerriero, il Corriere dell'Irpinia.
"E’
la disperata ricerca di quell’ordine perduto negli spazi della città, nella
loro storia e in quella dei suoi abitanti a muovere il commissario Mario
Melillo, figura ormai familiare al pubblico dei lettori, nel romanzo di Franco
Festa “Il respiro del male”, Mephite edizioni. A prendere forma è l’Avellino
degli anni Settanta che vede cambiare progressivamente il suo volto, divisa tra
ansia di modernità e tensioni conservatrici, sempre più spaccata in due tra una
periferia povera e abbandonata, in cui sono relegati gli ultimi e il resto della
città, dove vivono professionisti, politicanti, uomini senza scrupoli, gente che
ha sfruttato l’abusivismo per arricchirsi.
“Il nuovo e il vecchio convivevano disordinatamente, - così Avellino appare agli
occhi di Melillo - senza che nulla li collegasse. Una consunzione, un
esaurimento divorava le tracce del passato, non solo nel vecchio centro storico,
che era ormai un deserto diroccato abitato da fantasmi ma dappertutto. Erano
palazzi storici lasciati in abbandono, in attesa di crolli che avrebbero
consentito tutto, manutenzioni trascurate da parte di proprietari che speravano
in migliori affari, trasferimenti forzati nelle lontane periferie di piccoli
artigiani e commercianti che erano stati la linfa vitale del centro, mentre
nuove strutture commerciali si imponevano spavaldamente”.
La città diventa tentacolare e mostruosa e Melillo sa che non deve più
stupirsene o indignarsi “Rifletteva invece su quanto la grettezza avesse fatto
breccia, fosse diventata normalità in pochi anni, cancellando ogni senso civico.
O forse no, forse era sempre stato così”.
E se la città si trasforma non riescono però a trasformarsi i suoi abitanti, il
vento del rinnovamento sembra soffiare ovunque ma il perbenismo è ancora
imperante, è l’unica regola inderogabile, anche a costo di distruggere la vita
dei propri figli, come sperimenteranno sulla propria pelle Luisa e Bruno, non
riuscendo ad accettare in nessun modo la relazione del loro figlio Rino con
Claudia, giovane commessa con un figlio e un destino tragico che l’attende. “La
felicità dei due ragazzi – spiegherà amaramente Melillo – è diventata, anche
senza volerlo, il vero nemico da combattere, perché turbava i loro schemi,
metteva in discussione la loro tranquilla facciata di perbenismo”.
Sullo sfondo la lotta armata dei terroristi, giovani brillanti come Gianni, che
in quegli anni decidono di imbracciare le armi per riprendersi la società che
vogliono, senza prendere coscienza della violenza e insieme dell’utopia del loro
progetto.
E così respiriamo le storie di una generazione, uomini e donne che avrebbero
potuto essere con le proprie qualità, il proprio entusiasmo, la propria passione
il motore del cambiamento, schiacciati però da debolezze e sogni più grandi di
loro. Vite perdute, distrutte dalla violenza, dalla immondizia del mondo con cui
si sono scontrati, finiti in giri squallidi di scommesse o amori clandestini,
che restituiscono il senso di una paese, incapace, ieri come oggi, di
valorizzare il patrimonio di energie e intelletti rappresentato dai suoi
migliori giovani. “Lei conosce – spiega l’ispettore Vietri, arrivato
direttamente dall’antiterrorismo al fianco di Melillo, con i suoi maglioni
coloratissimi, in un rapporto quasi filiale che si stabilisce tra i due uomini,
così diversi e in fondo uguali nella loro ricerca di verità – meglio di me il
bisogno d’ordine che è la regola di questa città. Non voglio entrare nel merito.
Però i fatti di questi ultimi mesi hanno lasciato segni profondi. Erano ragazzi
che tutti consideravano di buone, anzi di ottime famiglie, che camminavano
tranquilli per il Corso fino alla domenica precedente e che all’improvviso hanno
sparato, ucciso in nome i ideologie folli, di progetti farneticanti, sanguinari.
E’ stata una frustata per tutti e non serve dire che è successo altrove, che noi
non c’entriamo. Non è così. Forse altri ragazzi si apprestano a percorrere la
stessa strada, forse non è finita qui”.
Simbolo di questo cambiamento, di ciò che sarebbe potuto essere e non è stato il
liceo scientifico Mancini, è lì che viene trovato il cadavere di Claudia ed è lì
che continuamente sembrano deviare le indagini.
Non è strano così che proprio il liceo finisca sotto accusa, anch’esso vittima
di chiacchiere e pregiudizi, perché tutti in città ripetono che lì, tra quelle
aule, fomentati dai docenti, sono nati i primi terroristi. Melillo non nasconde
più le sue emozioni, ha imparato a controllarle ma sente che finiscono comunque
per prendere il sopravvento e che forse è bene così, di fronte alle storie che
gli consegnano testimoni e imputati, sorta di sacerdote chiamato non ad
assolvere ma a capire, senza distinzione tra colpevoli e innocenti, poiché tutte
le persone, il commissario lo sa, sono importanti e tutte meritano di essere
ascoltate. Non è più possibile farsi scivolare addosso le loro paure, emozioni,
dolori.
“La furia e il dolore – scrive Festa – che aveva tenuto a bada in gioventù, ora
si affacciavano sempre più spesso, qualche volta senza freni”.
E una naturale pietas assale Melillo di fronte ai destini tragici che si
dipanano dinanzi ai propri occhi, in una società in cui l’innocenza è destinata
a soccombere, l’innocenza rappresentata da Rino e Claudia, con il loro amore
tormentato, da Graziella, che ha scelto di vivere alla Fornelle in un baracca,
lontano da tutto e da tutti, anche lei vittima di maldicenze e incomprensioni,
per tutti nient’altro che una pazza ma che sola sa comprendere i sentimenti
autentici del nipote. Quasi a dire che la scelta dell’autenticità non può che
condannare all’emarginazione. E dunque “Il respiro del male” che dà il titolo
alla raccolta è proprio negli ingranaggi di una società, di cui Avellino è solo
un simbolico microcosmo, che stritola i più deboli, nel prevalere di logiche
egoistiche che finiscono con il governare ogni gesto e comportamento, di cui il
costruttore Rocco De Robertis con la sua ossessione per il lavoro e il denaro
diventa incarnazione, nell’incapacità di essere più forti delle ipocrisie.
Nella città che diventa mostruosa anche i suoi abitanti finiscono per perdere le
proprie identità, per piegarsi a maschere che non appartengono loro, vittime
delle apparenze, incapaci di ritrovare la propria autenticità, anche al di là
delle regole non scritte che dettano legge e condannano “i diversi”
all’emarginazione. Ma Melillo non si arrende e malgrado si senta fuori posto
anche nel suo commissariato, anche nella sua città, continuamente sorpreso dai
ricordi, malgrado avverta il peso della solitudine, confortata questa volta
dalla presenza di una figura amica come quella di Lucia, vicina e insieme
discreta, va alla ricerca della verità.
Sa che una logica c’è anche quando sembra incomprensibile, ecco perché bisogna
cercarla, a tutti i costi, anche in quelle nuove costruzioni che sembrano
distruggere per sempre la sobrietà e il decoro del Corso, in quei destini che
sembrano sfiorarsi continuamente, in quella città che appare irrimediabilmente
sconfitta, nei volti sempre uguali dei suoi abitanti, negli scandali che si
susseguono, nel mondo del calcio, negli ospedali e insieme nei segnali di
speranza che arrivano dalla forza dei giovani, dall’entusiasmo delle radio
libere, dal vigore dell’innocenza che resiste anche quando è sconfitta.
Ecco perché non bisogna smettere di combattere e piegarsi alla rassegnazione,
come da tempo ha scelto di fare la città “Il commissario sapeva che in quelle
povere case ai lati della strada le famiglie faticavano ad arrivare alla fine
del mese, che le regole che avevano consegnato la città ad alcuni ed espulsi gli
altri in miserabili periferie avevano funzionato alla perfezione, che nessuno si
ribellava ad esse, anzi viveva la propria condizione con inquietudine, in
perenne attesa di una raccomandazione per un posto da bidello, di usciere, di
portantino”.