DAVIDE MORGANTI: LA RECENSIONE DI "NERO URBANO"
il Mattino del 9 dicembre 2013
Sullo sfondo una città opaca, dove le vite si nascondono, si interrano, si mettono da parte preferendo rimanere nel male delle case, delle stanze, dell’esistenza ordinaria, “il magistrato andava di fretta. Andava sempre di fretta. Da quando era arrivato il nuovo procuratore, tutti andavano di fretta. Solo la città no. La città stagnava, strabuzzava insonnolita tra cantieri incompiuti, si smarriva agghiacciata nei meandri delle strade intorno alla città ospedaliera, si immergeva catatonica nel suo tunnel, come una brutta addormentata che non aspettava neppure il suo principe azzurro”. Narra con mano felice Franco Festa nel suo nuovo libro (Nero urbano, il commissario Matarazzo e la sua città, Mephite, euro 12, pagg 130) adoperando una scrittura piana, semplice, che riga i personaggi – morti e vivi – attraverso il commissario Matarazzo, scontroso, ironico, privo di affetti, abituato a vivere i delitti, da quello della rumena fino al pensionato, come la conferma di un mondo che continua ad addormentarsi trattenendo l’orrore in petto. Festa descrive i luoghi in maniera essenziale, scarna, spesso mettendo in scena docenti in pensione che rappresentano una decadenza - invece di una rinascita - che non di rado ricade; le indagini, scandite da dialoghi efficaci che girano attorno ai protagonisti ora delineandoli ora srotolandoli fino alla loro scarsa consistenza morale: “Un uomo dormiva su un cartone, in quello che doveva essere un bar ed era solo una brutta escrescenza di mattoni e metallo. A un passo la bocca del tunnel, onnivoro divoratore di denaro pubblico, sembrava spalancata su una infinita risata sulla città. Matarazzo si fermò su una panchina, due lastre di zinco accoppiate. Cercò invano il creatore di quella schifezza, per appenderlo alla filiera che sovrastava il colonnato in cemento. Non riusciva a calmarsi, di fronte alle profondità di quelle storie in cui l'amore spalancava abissi, a qualunque età, sollecitava malvagità, spingeva fino all'assassinio”. I delitti su cui indaga il commissario Matarazzo, al di là della epifania finale del colpevole che in genere non riconcilia nessuno con nessuno, sono piccole radiografie di un malessere, tracce di una città che prova a ridurre la morte a fatto marginale per vite troppo piccole. La scrittura di Festa si tiene bassa, tra la gente, le strade, non invade ma descrive, non invade, fa accomodare, è una porta aperta sulla città e sugli uomini, facendo della semplicità la chiave d’accesso a un mondo che, apparendo sotto gli sguardi altrui, tende a nascondersi. “La città lo calmava, questa era la verità. Si muoveva rilassato nel vuoto del Corso, nel pieno agitato della piazza, tra le persone che perdevano tempo, tra quelle che si disfacevano nelle periferie, nel disordine senza nesso degli uffici, nell’ordine artificiale degli alberghi di lusso vicino alla questura. Gli faceva bene vagare a caso, per le poche strade, in quello sfacelo riusciva a soffocare il suo e a pensare meglio. Non era meravigliato di come, anche in questa storia, dietro la banalità si nascondessero la passione e la follia. Ma non riusciva ad abituarsi a questa sequenza che si ripeteva sempre uguale. Come in fondo non riusciva ad assuefarsi alla sua solitudine, al vento che gli tagliava sempre la faccia, al malessere che lo divorava”. Il delitto, dunque, che muove le storie di Franco Festa, è il grafico di una modernità piccola piccola, appartata, che si incastra dentro una città meridionale di pietra e di freddo, lontana dal mare e dalla folla; i morti sono, per lei, rantoli da soffocare e non colpe da espiare".