Franco Festa, Il confine dellĠoblio, Mephite 2015, pp. 259, Û 13
In una sua poesia
la scrittrice austriaca Ingeborg Bachmann, ricordando
antiche ferite ormai rimarginate, ammette che lĠunica ferita che non sana
quella aperta dal male: Çquesta non si cura, si riapre nella notte, in ogni
notteÈ. Le vittime del male, ma a volte anche i carnefici, prolungano le notti
in veglie estenuate, oppressi da ricordi che si vorrebbero ritenere falsi, ma
la cui concretezza appesantisce di ingannevoli realt le falsit e le ipocrisie
della vita quotidiana. Come riporta Franco Festa nellĠexergo
del suo ultimo libro, citando Calvino: Ç La menzogna non nel discorso,
nelle coseÈ. E di cose che feriscono, che ingannano o che uccidono, ce ne sono
tante nella nuova (e ultima?) avventura del commissario Melillo, Il confine dellĠoblio, con la quale la
microstoria della citt di provincia, incominciata negli anni quaranta con Delitto al Corso e proseguita
cronologicamente lungo altri quattro romanzi, si conclude nellĠepoca del post-terremoto,
vero spartiacque, questĠultimo, fra un prima e un dopo del capoluogo irpino, in
senso urbanistico, economico e morale.
Se vero,
infatti, che le precedenti narrazioni avevano ritratto la piccola Avellino,
dallĠultimo fascismo allĠimmediato dopoguerra e al miracolo economico dei
Sessanta, principalmente nella sua miseria territoriale e antropologica, pur
vero che il fiume di denaro che tracim nella regione dopo il tragico evento
dellĠOttanta diede la spinta decisiva a un capovolgimento di valori, abitudini,
tradizioni e culture che, nel bene e nel male, avevano caratterizzato nel tempo
la citt e la sua provincia, omologandole piuttosto a unĠitalianit corriva e
corrotta, composta da parvenus
ricchi soprattutto di pacchianeria e sfrontatezza, sordi a qualsiasi richiamo
di ordine etico o ideologico, in nome di un disinvolto sistema spartitorio del
bene comune, spesso sfociato nel crimine o ad esso associato. Di questi rapaci
predatori della storia e dellĠidea di comunit, che consumarono il banchetto
sulle spoglie delle macerie del sisma, si nutre la scrittura del libro, in
trasparente contrappunto con lĠintegerrima ricerca di verit e di rettitudine
del Òclan degli onestiÓ: il commissario Mario Melillo, innanzitutto, la sua
eterna fidanzata Lucia, lĠex-poliziotto Gaetano, il giovane Marco e lĠoriginale
Francesca, che con la sua macchina fotografica svela quanto alla vista puoĠ sfuggire, dando un indispensabile aiuto
allĠinvestigatore, e passando dal ruolo di presunta scomparsa a quella di
collaboratrice essenziale.
CĠ poi una zona
grigia, fatta di personalit dellĠambito giudiziario e poliziesco, in bilico
fra forzose complicit con i potenti e richiami alla vocazione della
professione, alcuni dei quali finiscono per ristabilire un legame di
solidariet e di rispetto verso quel commissario ormai alle soglie della
pensione, visto quasi come un ingombro in quegli uffici della Questura oggigiorno
sostituiti da palazzi e negozi, e relegato alla periferia del comando, cos
come le circostanze abitative lo hanno relegato nella periferia della citt.
LĠultima cerchia
di personaggi quella decisamente negativa: onorevoli, portaborse,
traffichini, ingegneri e palazzinari invischiati nella ricostruzione, sicari e
questuanti, gentuzza e gentaglia affratellata dalla
grande melma della corruzione e del mercimonio. Se ai delitti legati ai soldi
si intrecciano quelli di sangue il quadro di desolazione descritto da Festa
completo.
Eppure, in questa
presunta ripartizione dellĠinnocenza e della colpa, un tratto accomuna tutti:
la vilt. Finanche personaggi a loro modo eroici, o perlomeno resistenti alla
violenza dellĠambiente, finiscono per riconoscersi questo stigma della paura o
dellĠignavia, vuoi per accondiscendenza o inerzia, vuoi per vigliaccheria o
timidezza; fatto sta che questa cifra di apatia morale, o di complicit
dichiarata, sembra contraddistinguere tutti gli abitanti, e addirittura la
citt stessa, arresa a un tempo atmosferico perennemente piovoso e freddo,
quasi non riuscisse pi a sperare in un ritorno della bella stagione, e mai
metafora fu pi azzeccata.
é una patina di
tristezza che dalle strade invase dai container degli esercizi commerciali, dai
palazzi semidiroccati e dalle pretenziose grandi opere che avrebbero dovuto
rimpiazzarli, si allarga per cerchi concentrici dal centro moderno a quello
storico, dalle ville antiche alle baracche dei terremotati, componendo un
affresco di umiliazioni e prepotenze, in cui, in una sorta di oscena sindrome
di Stendhal, chi subisce e chi violenta si coprono a vicenda.
La scrittura di
Franco Festa accompagna con maestria stilistica le scelte narrative. LĠuso
della terza persona narrativa, distinguendolo dalla maggioranza degli scrittori
di noir, gli consente, a differenza
della limitatezza di conoscenza dellĠio narrante, unĠonniscienza autoriale che
gli permette di entrare nellĠintimo di ciascun personaggio, indagandone a fondo
le motivazioni e gli esiti, accompagnandoli con una pietas sincera o unĠesecrazione indignata. é tipico di questo
volume il ricorso a unĠambientazione essenzialmente antropizzata, il cui
paesaggio composto quasi esclusivamente da interni ed esterni urbani, come se
la natura, pur cos presente nella vecchia Avellino, si fosse ritratta due
volte, sconvolta dalla violenza del terremoto prima e dei suoi abitanti poi.
E tuttavia un residuo
di speranza pare aleggiare sulle ultime pagine del libro, fra amori novelli e
amori rinnovati, tra fughe verso un altrove desiderato da chi ha ancora lĠet
per farlo e finalmente intravisto da chi, come il commissario, avr oramai tutto il tempo per programmarlo.
Con le ultime parole lo scrittore accompagna cos il protagonista verso
unĠuscita che non necessariamente significa un calare del sipario, n sul
percorso del personaggio in questĠultima storia n nella futura invenzione
dĠaltre trame.
Carla Perugini