I CAPOLUPO, ARTIGIANI DEL CUOIO DA 80 ANNI

Via Due Principati, allora, era una festa. Negozio dopo negozio, fino al Ponte della Ferriera, a piano terra si succedevano ciabattini, ferraioli, sellai, sarti, impagliatori, barbieri. Erano usci aperti, parole che si rincorrevano, rumori e odori che riempivano la strada di vita. LĠartigiano Salvatore Capolupo, sulla soglia della sua bottega, mentre tagliava il cuoio, batteva, cuciva, inchiodava, risuolava e lucidava, era attento e vigile al lavoro che faceva, insieme ai suoi aiutanti. Per˜ gli piaceva lasciarsi attraversare dallĠ operositˆ che sfuggiva dalle porte e dalle finestre intorno a lui, per sfociare in un fiume febbrile e paziente di cui si sentiva parte. Solo il 9 maggio la via si fermava, le botteghe chiudevano. Tutti si recavano al santuario di San Michele a Faliesi, per partecipare alla grande festa in campagna, ove tra canti, balli e pranzi sullĠerba si intrecciavano amori fino ad allora nascosti o consumati in fuggitivi sguardi da un ÒbassoÓ allĠaltro. Negli altri giorni si lavorava fino a 18 ore al giorno: era sempre andata cos“, fin dalla prima bottega a contrada Cesine, dove per anni Salvatore fu lĠunico calzolaio di tutte le zone contadine l“ intorno. Poi era venuto a via Due Principati, e le scarpe aveva cominciato a costruirle, con il fratello Silvio: un lavoro che richiedeva attenzione, precisione, arte, fatica. Si era costruita la fama di persona burbera, ma non ci badava. Per i suoi familiari, per i suoi lavoranti, sui quali pure faceva arrivare continuamente il suo fiato, era disposto ad ogni sacrificio. Cos“, lentamente, aveva raggiunto una buona posizione economica. La cittˆ, ancora negli anni 50, ebbe fino a 110 ciabattini, e Capolupo forniva a tutti il materiale necessario: suole, tomaie, tacchi, colle e semenze.  Intanto a Salvatore, dal 1957, si era affiancato il figlio Giuseppe. Il padre avrebbe voluto che continuasse negli studi fino al diploma. Ma il mestiere lo incantava, spesso rubava le chiavi per andare ad aprire il negozio e curiosare tra scarpe e cuoio. E curioso della vita e degli altri lo era sempre stato, forse era lĠantica tradizione comunista della famiglia, che in lui si condens˜ in costanti battaglie di dignitˆ per gli artigiani e i commercianti.  Cap“ che bisognava rinnovarsi - le scarpe artigianali ormai erano diventate una raritˆ e un lusso - e allora si rivolse a calzature e zoccoli prodotti in serie, cominci˜ a dedicarsi alla costruzione di cinture e borse, alla riparazione delle giacche di pelle. E mentre la crisi  investiva e cancellava tante vecchie figure artigianali, Giuseppe difese e consolid˜ i risultati e la stima che il padre aveva con fatica acquisito. Fu anche merito di sua moglie Silvia. LĠaveva vista per il Corso, la prima volta, insieme ad alcune compagne, e ne era stato rapito. Era sarta e ricamatrice alla clinica Malzoni, e port˜ la sua arte e la sua fantasia nellĠattivitˆ commerciale. Fu sua, tra le altre, lĠidea di piccoli portafogli e borsellini in pelle di vari colori, che si vendettero a migliaia. Intanto, nel 1974, il capostipite Salvatore era morto, neppure sessantenne, e senza di lui, allĠinizio, fu dura, per lĠumanitˆ e la sapienza di cui era depositario. Ma la piccola ditta and˜ avanti, con dignitˆ, cogliendo i cambiamenti, adattandosi ad essi, fino a che ben due terremoti non la colsero. Il primo fu quello generale e funesto del 1980. In quello snodo vitale la cittˆ non seppe guardare a se stessa, non seppe puntare su quelli che potevano essere settori vitali per il suo futuro, e lĠartigianato e il commercio di qualitˆ erano tra questi. Trionf˜ unĠaltra logica, quella legata alla speculazione edilizia e alle grandi opere pubbliche, che snatur˜ definitivamente ci˜ che Avellino era stata per secoli. Capolupo riusc“ a uscirne perchŽ ancora una volta non stette fermo a lamentarsi, non allung˜ la mano per chiedere, punt˜ su di sŽ. La vecchia casa bottega fu demolita e ricostruita rapidamente nello stesso posto,  lĠ attivitˆ, dopo un iniziale difficoltˆ, tese a migliorare lĠofferta con nuovi prodotti. Giuseppe seppe immergersi dentro le moderne tendenze, partecip˜ a fiere del settore, rinnov˜  il negozio. E insieme, in una miscela preziosa di passato e di futuro, rafforz˜ la tradizione familiare nel settore, coinvolgendo altri membri, a partire dai figli: Katia, Stefania, addetta al ramo contabile,  e infine Salvatore, il cui nome segnava giˆ il suo destino. Sarebbe infatti diventato lui il titolare, al fianco del padre - che man mano gli lasciava pi spazio -, con le competenze manageriali acquisite con gli studi, insieme alla sua preziosa manualitˆ, vicina a  quella, ineguagliabile, del nonno. Poi arriv˜ il secondo terremoto, e tutto fu sconvolto. Questa volta fu un fatto tragico di un angolo della cittˆ, vissuto nella ignavia e indifferenza degli altri. I lavori sciagurati per la costruzione del tunnel, nel 2007, sbarrarono lĠaccesso alla strada. Dovevano durare poco pi di un anno, durarono otto. Tutto spar“, nel regime di desolazione che a via Due Principati si instaur˜. Trenta attivitˆ commerciali furono cancellate, vite e speranze si persero dietro gli ostacoli, le transenne, le barriere che resero la zona praticamente inaccessibile. Salvatore, per˜, non rimpianse di non aver continuato a fare carriera tra i carabinieri, come pure avrebbe potuto. Quella via era la sua vita: vi aveva fatto scorribande da piccolo, con il suo triciclo, gi fino al Ponte, si era incantato a spiare il lavoro del padre, la sua capacitˆ di relazioni umane, a cogliere, dietro i suo modi bruschi, lÔ amore per il suo lavoro. No, non poteva lasciare, non poteva andare via. Non lo aveva fatto il nonno, nŽ il padre, che pure avrebbero potuto, non lo fece lui. Altrove tutto cambiava, ma in peggio questa volta. Alla saggezza commerciale che aveva fatto del Corso un luogo mirabile, si era sostituito in generale un groviglio oscuro e maleodorante di negozi che aprivano e chiudevano in continuazione. Salvatore,  con il papˆ Giuseppe,  nella loro strada devastata strinsero i denti e i pugni, per non cedere. La flessione negli anni ci fu, i clienti abituali erano bloccati o costretti a insopportabili serpentine a piedi: un disastro. Oggi, che la zona  riaperta - ma i lavori della Piazza creano altri ostacoli, e la chiusura tra poco del Ponte della Ferriera ne creerˆ infiniti altri - i Capolupo si sentono come la cittˆ alla fine della seconda guerra mondiale: ci sono le macerie,  tutto da ricostruire. Avellino sembra pietrificata nel suo destino, senza governo, senza possibilitˆ di sviluppo. Manca anche un serio progetto turistico-culturale, che possa fare da traino per il commercio, visto il mancato recupero  del centro storico, di cui lĠabbandono della Dogana  un manifesto. Rassegnarsi, dunque? No, i Capolupo non conoscono questa parola. Nonostante tutto, il lavoro  la chiave per guardare oltre le miserie del presente. E il pi giovane, come il padre, come il nonno,  l“, ogni ora del giorno, a dare nuovo slancio al negozio, a stare dentro le trasformazioni: caratterizzare il marchio, diversificare i prodotti in vendita, qualificare costantemente il laboratorio, rinnovarsi ancora, come era accaduto negli 80 anni precedenti. Qualche sera Salvatore, quando spegne le luci delle vetrine , mentre ancora i consueti odori di cuoio e di pelle lo coinvolgono,  convinto di vedere, nellĠombra della bottega, il nonno, con il suo banchetto da calzolaio. Non parla, intento comĠ  al suo lavoro, ma il battito regolare del suo martello ricorda al nipote la forza della tradizione artigianale, cuore pulsante della storia di Avellino, di cui anche lui fa parte. Allora la sua rabbia trova pace, perchŽ sa di essere dalla parte giusta.