La scacchiera popolare era in frantumi. Invano De Mita si era affannato
a manovrare i pezzi, ad elaborare tattiche di attacco e di difesa.
Quello che avrebbe dovuto essere un partito compatto, pronto a serrare i
ranghi, era invece un esercito in rotta. I pedoni barattavano la resa
con l’avversario, pronti a vendersi per una paga miserabile. I cavalli
avevano disarcionato i cavalieri e scorazzavano dove sentivano odore di
foraggio. Gli alfieri non si muovevano più lungo le diagonali, ma come
ubriachi tra caselle bianche e nere. Le torri oscillavano sperdute, la
regina era pronta a farsi prendere da chiunque. Il re, infine, alzava le
mani, prima ancora che la guerra fosse iniziata. Ciriaco aveva
continuato imperterrito a mettere e a togliere pezzi, convinto di essere
ancora un gran maestro. Ma già si avvertiva il gong finale, mentre De
Mita ancora incollava in un angolo sperduto della scacchiera pezzi di
scarto o di seconda mano.