L’ EFFETTO FOTOELETTRICO

Alla fine del diciannovesimo secolo, come a tutti è noto, molti scienziati consideravano la fisica come una disciplina organicamente completa.

Le leggi della meccanica e la teoria della gravitazione universale erano ben stabilite da oltre duecento anni. La teoria dell’ elettromagnetismo di MAXWELL era completa. Si era compreso che la materia è costituita da atomi. La termodinamica era stata fondata di recente su basi solide. I grandi principi di conservazione- dell’ energia, della quantità di moto, del momento angolare, della massa e della carica elettrica - erano ben stabiliti e ben compresi.

Che cos’altro di realmente importante si poteva scoprire?

Eppure esistevano problemi latenti, che avrebbero sottoposto un edificio così apparentemente stabile a violentissimi attacchi.

Uno di questi era , appunto, l’ effetto fotoelettrico.

E’ utile, all’ inizio di questa conversazione, ricordare i risultati fondamentali dell’ effetto fotoelettrico, che consiste, semplicemente, nel fatto che una superficie metallica emette elettroni se è colpita da una radiazione di determinata frequenza          [LUCIDO 1].

1) Per ogni metallo esiste una frequenza no,detta frequenza di soglia, definita dalla seguente proprietà: l’ emissione degli elettroni avviene solo se la frequenza n della radiazione soddisfa alla relazione: n ³ n o

Per i metalli più comuni, come il rame e lo zinco, n o è nella regione dell’ ultravioletto, sicché le radiazioni visibili non provocano l’ emissione di fotoelettroni.

Per i metalli alcalini, invece, no cade nel visibile o addirittura nell’ infrarosso.

2) Il numero di elettroni emessi è proporzionale all’ intensità della radiazione incidente.

3) L’ energia cinetica Tmax con cui gli elettroni vengono emessi è indipendente dall’ intensità I della radiazione.

4) Viceversa, Tmax dipende dalla frequenza della radiazione incidente.

Precisamente risulta:

Tmax = h (n -n o).

5) Se una superficie metallica viene illuminata a partire da un certo istante t=t0 con una radiazione soddisfacente alla (1) e debolissima, gli elettroni emessi sono pochissimi, ma in ogni caso il fenomeno ha inizio nello stesso istante to. Non vi è, cioè, un tempo di rilassamento apprezzabile, comunque debole sia la radiazione incidente.

Questi gli aspetti quantitativi.

Prima di descrivere l’ interpretazione di essi dovuta ad Einstein, può essere utile e interessante ricostruirne la scoperta, definire i problemi che poneva e i rivolgimenti che comportò nel quadro concettuale della fisica classica. [LUCIDO2]

Il primo a notare lo strano effetto era stato HERTZ, nel 1887, durante una serie di esperienze con il rocchetto di Ruhmkorff tese a mostrare l’ esistenza delle onde elettromagnetiche ipotizzate da Maxwell nel 1864.

Egli pubblicò i risultati ottenuti in un articolo di quello stesso anno, dal titolo: Sull’ effetto della luce ultravioletta sulla scarica elettrica.

Ecco l’ apparato sperimentale che egli usò [LUCIDO 3]

Hertz stava studiando le scariche a scintilla generate da differenze di potenziale tra due superfici metalliche. La scintilla primaria proveniente dai terminali T T’ dello spinterometro generavano altre scintille in un circuito secondario R2, posto nelle vicinanze del primo.

Dato che quest’ ultima era più difficile da vedere, Hertz le mise intorno uno schermo per eliminare la luce indesiderata. Fu colpito dal fatto che ciò causava un accorciamento della scintilla secondaria, e che questo effetto era dovuto alla parte di schermo interposto.

Hertz, allora, cominciò a sospettare che potesse essere causato dalla luce prodotta dalla scintilla primaria. Scartata una origine elettrostatica dovuta allo schermo, poichè l’ effetto si presentava sia con schermi perfettamente isolanti, sia ottimi conduttori, egli provò pure a verificare se una qualche influenza l’ avessero la forma della scintilla, quella degli elettrodi, la natura dei metalli di cui erano fatti gli elettrodi: niente.

Con una splendida serie di esperimento concluse allora che la luce può produrre scintille.

Questo lavoro aprì ad una serie notevole di ricerche sperimentali, in particolare di HALLWACHS e di RIGHI. Fu quest’ ultimo, in particolare, che coniò il termine fotoelettrico.

Nel 1888 Hallwachs mostrò che vari dischi metallici, caricati elettrostaticamente di elettricità negativa, perdevano la loro carica se colpiti da radiazione ultravioletta. L’ effetto non si presentava su dischi carichi positivamente. Ma di cosa si trattava? Erano i dischi che perdevano elettricità negativa, o era una produzione di elettricità positiva che annullava quella negativa preesistente?

Nello stesso periodo, Righi realizzò una serie di esperienze che diedero credito alla prima ipotesi.

E’ interessante soffermarsi a descrivere brevemente lo strumento che utilizzò Righi[LUCIDO 4]

B è una lastra di quarzo attraverso cui passa una radiazione opportunamente emessa; C è la superficie metallica su cui va a incidere la radiazione; A è una griglia di zinco, che serve a far passare la luce, e che è mantenuta a potenziale costante Su NP poggia una campana di zinco che ha una apertura in corrispondenza di B, al fine di ripetere l’ esperienza per pressioni e gas diversi. Il filo f è collegato a un sensibilissimo elettrometro.

Fu con questo apparato sperimentale che Righi ottenne i seguenti risultati [LUCIDO 4b]:

le superfici metalliche esposte a radiazioni ultraviolette si caricano positivamente; L’ effetto è tanto maggiore quanto più la sorgente di radiazioni è vicina ; l’ elettricità trasportata deve avere segno negativo ; il fenomeno ha luogo anche con isolanti.

Come al solito, tra Hallwachs e Righi sorse una polemica sulla priorità delle scoperte. Il nodo vero era però un altro. Cosa era questa emissione di elettricità negativa?Un fluido, una molecola, uno ione? Occorreva saperne d più sulla natura dell’ elettricità per ritornare a considerare l’ effetto fotoelettrico.

Fu necessario aspettare fino al 1897, sino alla celebre esperienza di THOMSON, che scoprì l’ elettrone ( il termine elettrone è introdotto due anni dopo da Lorentz) e misurò il rapporto e/m.

Fu Thomson stesso che tornò sul misterioso fluido negativo dell’ effetto fotoelettrico e mostrò che quella corrente era costituita dalle stesse particelle che costituivano i raggi catodici. Ne misurò il rapporto con la massa e trovò per esso un valore dello stesso ordine di grandezza di quello già trovato: 7.6 X 1010 C/Kg nell’effetto fotoelettrico e 11,4 X 1010 nei raggi catodici.

Dunque la corrente fotoelettrica consiste in un flusso di elettroni che lascia la superficie metallica quando questa è colpita da una opportuna radiazione elettromagnetica.

Da questo momento in poi le ricerche si moltiplicarono , perché si era ormai in grado sia di indagare la struttura della materia, sia di studiare le interazioni tra radiazioni e materia.

Fu LENARD, nel 1902, che chiarì la completa fenomenologia dell’ effetto.

Anche qui, diamo una semplificata descrizione dell’ apparato sperimentale usato.[LUCIDO 5]

La radiazione ultravioletta entra nell’ ampolla di vetro attraverso la finestra di quarzo B e va a cadere sull’ elettrodo di alluminio U. Gli elettroni fotoestratti da U vengono attratti dall’ anodo E, permettendo così un passaggio di corrente nel circuito esterno schematizzato in figura, che viene misurata dal galvanometro G.

Con questo dispositivo, Lenard, che, per inciso chiamava quanti gli elettroni, da non confondere con i quanti di cui parleremo di qui a poco, riuscì a mostrare uno degli aspetti più significativi : la velocità massima con cui gli elettroni vengono emessi è indipendente dall’ intensità della radiazione incidente, ma dipende solo dalla frequenza di tale radiazione. [LUCIDO 5b]

Non solo: mostrò pure che la corrente, ovvero il numero di elettroni per unità di tempo, è direttamente proporzionale all’ intensità della radiazione incidente. E infine che l’ emissione degli elettroni, non appena si supera la soglia, anche ad intensità bassissime, della radiazione incidente, era istantanea.

 

 

Questi risultati erano sconvolgenti e inspiegabili nell’ ambito della fisica classica, ovvero della teoria ondulatoria elettromagnetica.

Che il campo elettrico E, rapidamente variabile, della luce incidente possa cedere progressivamente energia a un elettrone di conduzione, in modo che questo possa riuscire a superare la barriera di potenziale di estrazione e ad uscire nello spazio esterno con una energia cinetica residua T è ammissibile.

Ma come spiegare il fatto che l’ energia cinetica degli elettroni è indipendente dalla intensità della radiazione incidente?

A una radiazione più intensa corrisponde un campo elettrico maggiore. Non dovrebbe questo campo cedere agli elettroni una energia più grande?

Il conflitto diventa poi insanabile e stridente nell’ ultimo risultato. Radiazione debole significa campo debole. Necessariamente questo implica che deve passare un certo tempo affinchè in un elettrone possa accumularsi l’ energia richiesta per produrre l’ effetto.

Nell’ ipotesi della teoria ondulatoria, diminuire l’ intensità di una radiazione corrisponde a fissare una sorgente di data intensità e ad allontanarla. Ora la sorgente emana intorno a sè delle onde elettromagnetiche. Quando più queste onde si allontanano dalla sorgente, tanto più l’ energia che esse trasportano viene distribuita con densità sempre più piccola sulla superficie sferica dell’ onda. ( e questo il motivo per cui una luce ci sembra sempre più debole man mano che ci allontaniamo da essa) . se si pensa che le dimensioni di un atomo sono di gran lunga più piccole al confronto della superficie dell’ onda sferica che trasporta energia , ci si rende conto di quanta poca energia quell’ onda è in grado di cedere a un atomo e , quindi, di quanto tempo occorra perchè l’ atomo accumuli l’ energia necassaria all’ espulsione di un elettrone.

Può essere interessante fare qualche semplice calcolo.[LUCIDI 6-7]

Supponiamo di avere una superficie di zinco, posta a cinque metri di distanza da una debole sorgente di luce monocromatica, la cui potenza di emissione è 1.0 mW. Ammettiamo che un certo fotoelettrone che è stato emesso abbia raccolto energia dall’ area di una superficie circolare di raggio pari a 10 diametri atomici (=1,0 * 10-9 m). L’ energia necessaria per estrarre un elettrone dalla superficie è 4,2 eV. Assumendo che la luce sia un’ onda, quanto tempo impiegherebbe un bersaglio di questo tipo per assorbire questa energia dal fascio incidente?

L’ area del bersaglio è P (1.0 * 10-9 )2, cioè 3,1 *10-18 metri quadri. L’ area di una sfera di 5,0 m di raggio, con centro nella sorgente di luce, è 4P (5,0)2 =3,1 *102 m2. Se la sorgente di luce emette uniformemente in tutte le direzioni, l’ energia incidente nell’ unità di tempo sul bersaglio è

POTENZA= POTENZA TOTALE *(AREA BERSAGLIO)/(AREA SFERA)= 1,0 *10-23 J/s

Ammettendo che tutta questa potenza sia assorbita , si può calcolare il tempo richiesto come:

t= (ENERGIA DI ESTRAZIONE)/(POTENZA)*(CARICA ELETTRONE/ 1 eV)= 19 ore!!!

Nella realtà, per quanto debole sia la sorgente di luce, i fotoelettroni emergono entro 10-9 s circa dall’ istante in cui la luce ha raggiunto l’ emettitore.

I tentativi di spiegare l’ effetto fotoelettrico con al teoria ondulatoria della luce portavano dunque tutti a degli assurdi. Illuminante, a questo proposito, l’ esempio proposto da Bragg, in un bel libro: Il mondo della luce, edito da Tuminelli nel 1935.

" Supponiamo di lasciar cadere nel mare una tavola da una data altezza, supponiamo di 30 m. Avviene l’ urto e nascono le onde, che si propagano sulla superficie dell’ acqua; queste onde passano accanto a barche, a navi, senza produrre effetto e, dopo aver percorso migliaia di chilometri,trovano una nave sulla quale esercitano un effetto disastroso: una tavola viene staccata dal bordo della nave e sollevata all’ altezza di 25 m nell’ aria, o anche di soli 15 m, o di 6: tutti questi numeri sembrano egualmente ridicoli".

Questo era dunque il quadro drammatico entro cui si situavano i risultati dell’ effetto fotoelettrico, sino all’ intervento risolutivo, nel marzo del 1905, di ALBERT EINSTEIN. Fu, per inciso, proprio questo scritto a fruttargli, nel 1921, il premio Nobel per la Fisica, con la seguente motivazione:

"Ad Albert Einstein, per i suoi contributi alla fisica teorica e specialmente per la scoperta della legge dell’ effetto fotoelettrico".

Prima di descrivere le semplici ed esaurienti spiegazioni che Einstein diede , è fondamentale però comprendere il suo approccio alla questione.

Quello che i suoi tre straordinari articoli del 1905 , sul moto browniano, sull’ elettrodinamica dei corpi in movimento (ovvero la relatività ristretta) e sui quanti di luce, evidenziano con nettezza è ,infatti, innanzitutto una vera e propria svolta nel modo di fare fisica, nel modo di affrontare i problemi.

Citiamo le sue stesse parole, pronunciato nel 1914 nel discorso inaugurale dell’ Accademia prussiana delle Scienze:

"Il metodo teorico si fonda sull’ esigenza di prendere come base delle ipotesi generali, chiamate principi, dai quali sia possibile dedurre delle conseguenze... Il fisico teorico deve innanzitutto cercare dei principi e in seguito sviluppare le conseguenze che ne derivano. Stabilito il principio, infatti, le deduzioni si succederanno l’ una all’ altra, con il risultato di portare spesso a relazioni insospettate e tali da condurre ben al di là del campo dei fatti per i quali i principi erano stati creati".

Se questo è lo schema logico, da dove parte, nel nostro caso, il ragionamento di Einstein?

Basta leggere, con attenzione, la prima pagina del saggio del 1905, in cui si coglie subito l’ elemento centrale: l’ asimmetria, la differenza tra l’ idea di continuità insita nel concetto di campo elettromagnetico e quella di discontinuità della materia ponderabile, fatta da atomi e da elettroni.

Di qui, la nuova chiave di lettura: la quantizzazione. Già introdotta cinque anni prima da Planck, ma solo come mero artificio per risolvere l’ altro annoso problema, quello del corpo nero, ora essa viene usata per mettere in discussione la vecchia concezione di campo.

La teoria di Maxwell, insomma, sembra valida solo per i fenomeni macroscopici. I fenomeni microscopici devono trovare la loro spiegazione in un altro principio.

Eccolo: in un fascio di luce l’ energia è quantizzata, ossia è concentrata in piccolissime dosi finite, o quanti. L’ energia di ogni quanto è data dalla relazione: E= h*n .

Ancora con le sue parole. "Quando un raggio di luce si espande partendo da un punto, l’ energia non si distribuisce su volumi sempre più grandi, bensì rimane costituita da un numero finiti di quanti di energia localizzati nello spazio, che si muovono senza suddividersi e che non possono essere assorbiti o emessi parzialmente".

Alea iacta est, il dado è tratto, il gran passo è fatto: i quanti - si chiameranno fotoni solo a partire dal 1926, e il termine sarà introdotto dal fisico Lewis- sono assunti a principio generale.

Trovato il principio generale, Einstein passa ad applicarlo ai singoli fenomeni fisici, tra cui l’ effetto fotoelettrico.

Leggiamo ancora da lui: [LUCIDO 8]

Pertanto,se il fotone ha energia E= h*n , questi elettroni avranno una energia cinetica data da:

Tmax = h*n - w (**)

Vediamo ora come l’ ipotesi dei fotoni di Einstein risolve le tre obiezioni sollevate contro l’ interpretazione ondulatoria dell’ effetto fotoelettrico.

La prima obiezione, ovvero l’ indipendenza di Tmax dall’ intensità della illuminazione, è in accordo totale con la teoria fotonica. Se si raddoppia l’ intensità della luce, è il numero di fotoni che diventa doppio, e quindi anche la corrente si raddoppia, ma non cambia nè l’ energia dei singoli fotoni, nè la natura dei singoli processi fotoelettronici.

L’ obiezione 2, esistenza di una frequenza di soglia, è risolta dall’ equazione

(**). Se Tmax è nulla, si ha: h*n =w, per cui il fotone ha proprio l’ energia sufficiente per estrarre gli elettroni, ma non gliene rimane come energia cinetica di fuga.

Se n è più piccolo di n o, i singoli fotoni, indipendentemente da quanti essi siano, cioè indipendentemente dall’ intensità della luce, non hanno energia sufficiente per estrarre gli elettroni.

L’ ultima obiezione, infine, relativa all’ assenza di ritardo, è risolta dalla teoria fotonica, perchè radiazione debole significa solo un minor numero di fotoni in gioco, ma ognuno di essi interagisce con l’ elettrone e lo espelle all’ esterno.

Se riportiamo sull’ asse delle ordinate Tmax e su quello delle ascisse n ,si ricava una classica relazione lineare tra le due grandezze [LUCIDO 9], con rette di coefficiente angolare h= 6,6 *10 ^-34 J*s

Si osservi che le no sono le differenti frequenze di soglia per i vari metalli e le w sono le differenti energie di estrazione per differenti metalli ( sono energie di legame e pertanto negative).

Si vede come, all’ aumentare della frequenza oltre quella di soglia, aumenta l’ energia cinetica con la quale un dato elettrone è emesso dal metallo

Tutto a posto, dunque?

Si fa per dire: nasce , da questo momento, uno straordinario dualismo onda-corpuscolo. La luce si presenta come un sistema di onde o come una corrente di fotoni a seconda del fenomeno che si considera.

Per anni , e ancora oggi, questo problema è al centro del dibattito non solo scientifico, per le straordinarie implicazioni che pone, e che altri avranno modo di approfondire.

La teoria dei fotoni è infatti una teoria corpuscolare, anche se ben diversa da quella classica di Newton, in quanto vi interviene un elemento completamente estraneo alla teorai corpuscolare newtoniana, la frequenza.

Essa interpreta correttamente un insieme dei fenomeni , come quello fotoelettrico, come l’ effetto Compton, e altri ancora, come l’ esistenza di un limite per lo spettro continuo dei raggi x, le righe spettrali, ecc. Spiega del pari la propagazione rettilinea, la riflessione, la pressione di radiazione, gli effetti Doppler.

Ma non può in alcun modo spiegare né i fenomeni ondulatori di interferenza e di diffrazione, né i fenomeni di polarizzazione, e ci pone di fronte a grandi difficoltà in ciò che riguarda la coerenza dei treni d’ onda o il potere separatore degli strumenti di ottica.

Va detto che Einstein fu sempre consapevole dei problemi che si ponevano. Nel 1951 scrisse:"Tutti questi cinquant’ anni di continuo almanaccare non hanno affatto avvicinato la risposta alla domanda: Che cosa è la luce?"

E per tutta la vita sottolineò il carattere provvisorio dell’ ipotesi.

Altra cosa, però, è quello che avrebbero voluto molti fisici, specie del suo tempo: che cioè semplicemente ritrattasse. Lo affermò nel 1907 un suo fervido ammiratore, von Laue, lo scrisse nel 1912 Sommerfield, lo ripetè Millikan nel 1913 e ancora nel 1916, dopo che egli stesso sottopose con successo quella teoria a un rigoroso esame sperimentale. Egli scrisse al riguardo:" Nonostante il successo apparentemente completo dell’ equazione di Einstein, la teoria fisica di cui tale equazione era destinata ad essere espressione simbolica si è rivelata insostenibile al punto che Einstein, stesso, credo, la ha abbandonata."

Invece, in tutti suoi scritti e le sue lettere, non vi è alcuna prova che in qualsiasi momento egli abbia ritrattato qualcuna delle affermazioni fatte nel 1905.

La verità è forse un’ altra: pochi hanno avuto davvero il coraggio di accettare sino in fondo il ribaltamento del quadro concettuale, del punto di vista, proposto da Einstein.

In questo senso, sebbene la sua interpretazione dell’ effetto fotoelettrico si è affermata, non si può dire altrettanto del suo modo di fare fisica che, ancora oggi, incontra grandi resistenze.